Strettamente Personale è una modalità inedita di presentare 6 mostre personali ospitate contemporaneamente nello stesso spazio e provocate dal bisogno di parlare non più di se stessi, ma dell’Altro. L’obiettivo di questo molteplice intervento sullo spazio, riflette sul comportamento che assumiamo in funzione non tanto delle caratteristiche obiettive dell’ambiente, quanto del modo in cui lo percepiamo.
Quello che ci dicono questi artisti è che data una possibile relazione con l’Altro, la nostra non è mai una risposta semplice: è piuttosto il significato che noi attribuiamo alle azioni ad avere la meglio. Strettamente Personale è il titolo di sei mostre personali e allo stesso tempo un interessante oggetto di riflessione. La questione dello schema mentale che organizza la nostra interpretazione del mondo è utile per ricordare che lo schema è un modello che sta al di fuori del soggetto, esattamente come accade con la sua rappresentazione artistica.
Con uno stimolo visivo come quello prodotto dall’intenso lavoro sul conflitto accolto o mai totalmente negato di Meri Ciuchi; sull’assenza di relazione proposta da collor8; sul doppio di Ilaria Margutti; sulla sua ombra nel lavoro di Andrea Lunari; sull’immagine altrui più leggera e pacificata di Paolo Antonio Toci o sull’attuale ricaduta delle colpe commesse dagli altri in passato denunciata dalla precisione di Paola Maffei, l’interazione è non solo assicurata ma facilmente sperimentabile. In seguito alla visione delle opere lungo le stanze del palazzo, le proposte di Meri Ciuchi, collor8, Andrea Lunardi, Paola Maffei, Ilaria Margutti e Paolo Antonio Toci, daranno avvio a molteplici interrogativi. Il primo dei quali sarà necessariamente: strettamente personale di chi?
PRESENTAZIONE
In sei diverse stanze l’Altro prende forma, acquistando perfino una tangibile consistenza. Fisicamente assente, Egli è un’immagine che potrebbe compromettere la modalità della risposta, eppure non corriamo questo rischio. L’immagine come la parola interpreta, costituisce ed edifica il mondo. È atto creativo che istituisce i limiti dell’umano, li nomina, ma allo stesso tempo ne impedisce in qualche modo il dissolvimento. Lo scambio dunque avviene con il simulacro dell’altro, proprio perché la sollecitazione percettiva è determinata da un ventaglio assai vario di proposte fatte ad arte. Le immagini dell’altro ci inducono a pensare alle catene di azioni e reazioni possibili in un orizzonte “virtuale”, fatto di segno, colore, immagine e bidimensione.
Strettamente Personale è il titolo di sei mostre personali e allo stesso tempo un interessante oggetto d’analisi, in quanto percentuale visibile di un processo che anche in altre condizioni si svolge “nella testa” delle persone che confrontano le proprie reazioni con le aspettative da cui sono partiti. La questione dello schema mentale che organizza la nostra interpretazione del mondo e degli altri è antica e controversa, ma è utile ricordare che lo schema è un modello che sta al di fuori del soggetto, esattamente come accade con la sua rappresentazione artistica. Pertanto, divenuto informazione, lo stimolo visivo analizza il vissuto degli altri e ingenera un’altra domanda: strettamente personale di chi?
Mend of me è un lavoro orchestrato sul tema del confine e si gioca sull’equilibrio instabile della soglia. Soglia come luogo emblematico, in grado di evidenziare il duplice carattere del soggetto rappresentato, pronta a concedere ad Ilaria Margutti la possibilità di accostarsi alla pittura in un modo decisamente ambivalente.
Che si tatti di un ritratto è indubbio, tuttavia non è certo il confine tra reale e irreale e quindi tra opera e operatore. Opera-fantasma costruita dalla tecnica, l’immagine offre un montaggio che si regge, fa sue e poi gioca con le regole del ricamo. Ombra e prodigio delle mani, la forma crea una distanza temporale rispetto all’artista che pure è stata lì e ha ritratto la propria immagine in un momento della vita ben preciso, anche se ad ogni osservatore essa pare costruirsi in un presente eterno.
La forma è in grado inoltre, di sondare l’antica questione del doppio, avvalendosi della metafora come unico meccanismo concettuale utile per parlare di se stessi e allo stesso tempo per giocare con l’altro. L’immagine di se stessa come traslato altrui. Atemporalità di un processo eterno e quindi fuori dal tempo e individualità sono i due estremi di questo confine; le vie perseguite e poi abbandonate da un processo elaborativo lento che stimola riflessioni sulla produzione dei simulacri. L’immagine possiede davvero una forza attrattiva che può incidere sui nostri valori e sulle nostre credenze. In questa realtà e in molto altro ancora è capace di agire, con una energia che va al di là della singola percezione. Il carattere trasgressivo è dovuto proprio a questo dispositivo di pulsioni che si irradia in ogni direzione coinvolgendo tutti noi, grazie al quale si amplifica la realtà tramite l’imitazione e si permette che sulla trama della tela la forma denunci il manifestarsi di una pulsione in grado di creare una realtà sostitutiva, un inganno della mente. Chi dà forma a chi? Chi è il vero, unico e solo costruttore di questa illusione che chiamiamo figurazione?
Svuotamento semantico del processo pittorico che è stato tale solo nella fase progettuale (ora nascosta alla vista perché sostituita dal lavoro con strumenti che diventano parte integrante dell’opera) e desoggettivazione dello stesso (al punto da rendere difficile la collocazione precisa del soggetto rappresentato, visibile forse, in un altro tipo di dimensione) sono i territori attraversati per favorire la crescita valoriale di quell’ago che, oltrepassando il limite, dà anima ad un’immagine che non a caso, tesse se stessa.
Le immagini protagoniste di Paolo Antonio Toci portano un titolo emblematico per l’analisi altrui nei termini più leggeri e familiari: Intimamente.
È con grande intimità infatti che nei lavori qui raccolti si raccontano amori, gioie e dolori di un’umanità trasparente e impalpabile, segnata da contorni leggeri incapaci di risultare minacciosi. Si raccontano brevi storie e momenti singoli, ma significativi di uomini e donne ritratte in primissimo piano o a figura intera, con una pasta monocromatica in grado di disperdere la stessa fisicità delle terre e dell’olio. La parvenza oscura e materica non è mai né fine a se stessa, né realmente oppressiva o emblematica di tensioni o attriti. La caratteristica principale è piuttosto costituita da un ritmo di racconto che procede a passi lenti, senza veri colpi di scena o crudeltà. Sono storie intime come le confidenze che si scambiano due vicini alla finestra che, proprio perché tali, sono composte da fiumi di parole libere e sciolte, almeno quanto oneste.
Intimità che a turno ottengono spazi di espressività diversi e quindi tempi di fruizione più o meno ampi, a seconda della nostra buona disposizione all’ascolto. Un carattere familiare e discorsivo che anziché raccontare con le parole si avvale di un apparato illustrativo che si sostituisce ad esse senza restare privo delle svariate tonalità della voce. In ogni immagine si ha a che fare con i momenti più caratterizzanti di una chiacchierata della quale non è difficile distinguere i suoni, le variazioni del volume della voce o gli scoppi di risa. Timbri diversi che si lasciano attraversare dal sussurro, dal grido oppure dal mormorio per scoppiare nel fremito che lascia l’ilarità, specie quando vengono intensamente soffocate a seguito di commenti che non si dovrebbero fare.
Un procedimento figurativo che mitiga il rischio della bidimensionalità attraverso l’uso terre che graffiano gli effetti rugginosi e neri lasciando i bordi in grado di sagomare lo spazio. La risultante è una profondità assai simile a quella che abbiamo nei ricordi. Specie nei ricordi che abbiamo quando l’Altro è assente oppure è scomparso dalla nostra vita, dopo un intenso periodo di abbandono o d’amore. Ne nascono immagini che confondono il proprio perimetro con ciò che hanno intorno, totalmente fuse con il passaggio veloce, materico e controllato del pennello ai bordi della tela, pronte a vivere in quello stesso spazio piano e poetico, riservato di solito ai ricordi migliori.
Nello stile limpido ed elegante di Paola Maffei – costituito da lente stesure di strati di colore distribuito con i tempi dell’artista di un’altra epoca – più che il soggetto è il realismo dell’insieme a garantire il risultato, alludendo ad un universo emotivo sconosciuto eppure familiare. Ogni livello strutturale e ognuno dei passaggi chiaroscurali di cui sono composte queste tele sono in grado di tradurre in dato sensibile e certificabile i tempi della Storia. Il pennello diventa strumento di registrazione di un iperrealismo concettuale mai fine a se stesso. Oltre alla grande qualità e quantità di informazioni esso è in grado di evocare la lingua del simbolo e del mito, sapientemente abbinata alla storia delle ordinarie nefandezze di cui è stato ed è capace l’uomo. Un mondo in cui le cose visibili e coerenti che pure sono offerte alla vista con grande dovizia di particolari, scompaiono per lasciare spazio all’invisibile bisogno di giustizia espressa secondo dettagli sempre più netti. Sono proprio quei dettagli, che in un primissimo momento appaiono di scarso rilievo collocati come sono in secondo piano, a dare la misura del significato generale dell’opera, del suo obiettivo principale e dell’intensa disapprovazione dell’artista nei confronti dello scempio ambientale di cui ci stiamo facendo promotori.
Una materia visiva che abbina all’intensa rappresentazione di donne vissute in tempi remoti, protagoniste di epoche a noi lontane (ma tutte legate da rapporti di parentela con l’artista) a immagini di città attuali o future in pieno disfacimento e distruzione.
L’accostamento mai casuale di immagini di questo tipo è giustificato dal significato che il titolo Nemesi vuole dare alla Storia assegnando ad ognuno le proprie colpe. In un sol colpo presente e passato si fondono nel momento attuale, rendendoci testimoni delle scelte che donne come queste fecero in maniera più o meno consapevole. Raccogliamo i frutti marci resi velenosi da chi non ha pensato che al progresso. Incuranti dello spettacolo naturale e del lento procedere della vita, le donne respirano i futuri fumi di scarico che loro stesse hanno generato. Terra bruciata e inquinamento atmosferico diventano parte integrante della cultura più ostile al pianeta, ancora oggi sprovvista di veri e propri colpevoli.
Queste minacciose collocazioni prospettiche compongono un futuro in cui il bianco mai più candido illuminerà ancora abiti, mani, orizzonti, fumi di scarico e fabbriche, finalmente colpevoli e turbate come i visi di queste donne.
L’installazione Niente di Niente di Collor8 è frutto di un fatidico incontro tra le immagini e la divisione o il distacco. La separazione da se stessi del proprio ruolo e perfino della propria responsabilità sociale sono i tratti fondamentali di un’opera che nulla concede al comune significato attribuito al concetto di abitudine. Eppure, che si tratti di una registrazione oggettiva dell’uso quotidiano delle cose è più che corretto. Tuttavia la perplessità rimasta inalterata potrebbe portare alla confusione nella decodifica e alla necessità di non farsi travolgere dal dubbio.
In ogni singola immagine, sia essa di piccole che di grande dimensione, vediamo una disposizione apparentemente incoerente dei fatti. Si tratta della registrazione delle innumerevoli modalità di vita che ci vedono giornalmente impegnati, ma private da ogni tipo di orpello. Questi uomini dimostrano di possedere un’apparente normalità che è tale solo ai loro occhi, ma che a noi risulta oscura quando non evocatrice di possibili esercitazioni spirituali. Partorite dal bisogno di analizzare un corpo umano in ogni sua azione quotidiana, queste immagini ci raccontano l’assenza. Sono assenti tutti i riferimenti altri rispetto all’umano vivere, perché rimaniamo inevitabilmente spiazzati quando al mondo vengono sottratte le cose. Quelle stesse cose che confortano la nostra esistenza, sostenendo il peso di ogni nostro sforzo per conquistarle, fino ad assegnare ad esse la responsabilità della felicità.
Nessun abito, pantalone, jeans o maglietta copre questi giovani uomini nudi che vivono e strutturano le loro relazioni con cose inesistenti: gli attrezzi che pure sembrano usare, i mezzi di cui si avvalgono per restare dritti contro il vento o seduti comodamente; gli oggetti e perfino le ambientazioni che essi riconoscono intorno a loro scompaiono alla vista inesorabilmente, così come scompare l’altro e quindi ogni vera possibilità comunicativa. Linguaggi ancora tutti da convalidare, i loro movimenti sembrano muti alla comunicazione così come sono vaghi alla vista. Corpi solo per metà reali, questi uomini respirano l’assurdità di azioni vissute nel paradosso di un campo gravitazionale che necessariamente deve essere inesistente. Presenze mute con un modello di realtà che mal si adatta all’informazione data dall’esterno, esse sembrano essere in grado di andare oltre il limite della sopportazione. Infatti, è proprio grazie a questi modelli che essi riescono a rendere compatibile il niente di niente con la “relazione”.
Il binomio CORPO/OMBRA è per Andrea Lunardi occasione di riflessione sulla consistenza. Qual è la vera densità dei corpi altrui e fino a che punto possiamo considerare i loro corpi solidi?
Nell’opera fotografica dell’artista le ombre che acquistano consistenza e i corpi che diventando luce si smaterializzano, sembrano darci un’idea diversa circa la certezza della tridimensionalità. Luce e ombra totalmente compenetrati, fanno della fotografia un sottile gioco di parole tra apparenza e sostanza e giocando con la dote di possedere un modello di realtà supplementare, essa sovverte la forma familiare del soggetto rappresentato. L’ombra è in grado di rivelare un dedalo di varianti del reale, un aspetto immateriale dei corpi più segreto e al tempo stesso più presente che la fotografia può e deve annunciare al mondo. Quanto è presente l’altro alla nostra vista quando egli è solo un ombra, seppure di ricca di riverberi sottili e di lievi toni cangianti? L’ombra come traccia sotratta di una presenza, inverte la realtà della percezione visiva. Proiezione esaltante e animata, cattura l’attenzione più di ciò che è effettivamente presente. Ingombro vuoto e ingombrante assenza in grado di smaterializzare la normale densità delle cose. Il corpo è stato lì e ha lasciato impressa la sua traccia. La sua figura non imprime una superficie, rende un’immagine perché ne cattura la luce: il corpo come buco nero. Questo è un mondo incorporeo che si condensa a metà strada tra la luce e la tenebra allo scopo di ammaliare e confondere tramite la seduzione degli occhi. Corpo e ombra diventano così due realtà complementari, entrambe fondanti per accorgersi che ogni presenza è insieme assenza e quindi deposito di metafore che hanno a che fare con un passato che eternamente riconfluisce e rende presente ciò che ha perduto. L’Io e l’altro possono dar vita ad un unicum in cui ciò che si lascia apprezzare è la sottile intensità di un corpo che non riflette se stesso perché incapace di specchiarsi.
L’istallazione Souvenir di Meri Ciuchi composta da foto che ritraggono immacolate figure femminili purificate dal candore del bianco e da centinaia di piccoli barattoli con inserito all’interno uno spino metallico disposte a terra, tesse le trame di una relazione con l’altro utile a riflettere sulle possibilità autodistruttive del conflitto. La formulazione così contraddittoria tra la minaccia del filo spinato, offerto con gentilezza e sperimentato con delicatezza da queste donne e il candore dei loro volti, ci assicura l’impossibilità di anticipare gli eventi futuri. Non si tratta di un terribile inganno ordito contro la nostra buona fede, ma l’offerta sincera e pacata di un’innocente. Non è possibile prevedere gli esiti di questo scambio e, come capita sempre più spesso nelle nostre comuni relazioni con l’esterno, questa incapacità assume inevitabilmente nuove valenze. È possibile che ognuno di noi diventi una minaccia per l’altro più o meno inconsapevolmente, così come è probabile che ogni avvio di relazione (sia essa d’amicizia, d’amore o di lavoro), sia in grado di generare frustrazione, odio o conflitto. Difficilmente saremo portati a credere a qualcos’altro. Tuttavia, accettate ognuna delle fasi che costituiscono il primo incontro e accolta ogni piega intimidatoria, ci rendiamo partecipi del conflitto ospitando nelle nostre case il più nero dei souvenir. L’intento di rivolgere l’attenzione sullo stato di conflitto che ci circonda: sia esso interiore, esteriore, d’interessi o armato, ricerca un contatto emozionale con l’osservatore che, catturato dall’innocente offerta, diventa parte integrante dell’ostilità. L’artista ci spinge alla riflessione chiedendoci di prendere coscienza della nostra acquiescenza. Non sempre l’arrendevolezza scongiura il peggio e a volte, la manifestazione aperta della propria opposizione all’ingiustizia e alla malafede sono oltre che opportuni e giusti anche i termini di un imperativo morale dal quale non dobbiamo sottrarci. Tuttavia, allo stato dei fatti non è così. Approccio utile nello studio della conoscenza dell’altro, il lavoro dimostra infatti la nostra evidente capacità di accettare la situazione così com’è.
Matilde Puleo