Sono state tante le strade percorse dalle avanguardie. La via maestra però è senz’altro quella che ha perseguito la “sintesi delle arti” . Una sintesi inedita e in molti casi insperata dedita ad uno scopo accattivante: quello di condurre la cultura a un progressivo assottigliamento dei confini di competenza fra le diverse discipline. Per attuarlo, ha dato ascolto ad ogni tipo di esigenza e di richiesta giungendo ad infrangere le barriere tradizionali tra spazio virtuale dell’opera d’arte e spazio reale dell’uomo al punto da renderci ancora ben visibili i suoi effetti. A ciò si aggiungano le ormai note ricerche sul cervello e sulla ricezione delle forme grazie alle quali i ricercatori di neuroestetica, spiegano l’esperienza estetica a livello neuronale, giungendo a conclusioni non prive di un certo fascino. Tramite le infinite potenzialità empatiche dei neuroni specchio, oggi conosciamo il ruolo da essi svolto in termini di ricezione estetica e quali siano gli effetti nel rapporto tra arte e cervello. Sappiamo ad esempio, che al momento dell’incontro tra osservatore e fenomeno artistico si attivano risposte che a questo punto possono considerarsi universali proprio perché indifferenti al condizionamento e alla mediazione culturale. In sostanza, si afferma che esistano risposte empatiche di base che scattano di fronte alle immagini, siano esse artistiche e non.
A ciò si aggiunga un’altra questione di vitale importanza quale l’osservazione del coinvolgimento del sistema motorio. Nel cervello di chi osserva non si attivano solo delle parti visive del cervello, ma anche le regioni cerebrali coinvolte nel movimento, nelle sensazioni tattili e nelle risposte emozionali. Si accredita così la ricerca artistica che – assetata di sinestesia – ha inteso sin dalle avanguardie appunto, restituire una globalità di percezioni sensoriali diverse e simultanee che sconfiggessero il primato dell’occhio, della vista e della visione, giungendo perfino al ribaltamento. Dal frastuono percettivo cioè (espresso nelle sue varianti più multiformi), si giunge al silenzio meditativo, o alla visione interiore fino a quella tendenza estrema e radicale dell’astrazione che va alla ricerca del sublime.
AREZZO
Sala di Sant’Ignazio
via Carducci, 7
07 settembre – 08 ottobre 2013
L’astrazione è da sempre processo mentale e come tale ha caratterizzato il XX secolo in tutte le sue manifestazioni, dall’arte alla filosofia, incarnando questa possibilità di ricondurre il reale a una visione sintetica e globale, esperienza vissuta e modello del reale in tutte le possibili varianti. La ricerca di astrazione (da abstrahere, cioè staccare, separare, rimuovere) intesa dunque come operazione volta ad individuare ed estrarre alcuni elementi e non altri, attiva il necessario “distacco” del soggetto nei confronti dell’oggetto da rappresentare.
Insieme ad una delle voci più autorevoli nel campo della filosofia artistica interessata all’astrazione come W. Worringer (che tra l’altro ha in mente l’arte ornamentale), penso che l’astrazione più che una tendenza sia una modalità del percepire. Sovrastorica e riscontrabile in diverse epoche, l’astrazione è un’esigenza mentale. Nell’arte moderna tale processo, in misura maggiore o minore, è verificabile in nuce anche nelle poetiche naturalistiche, almeno a partire dall’impressionismo, mentre è alla base di quelle tendenze che, scomponendo le strutture narrative, isolano singoli oggetti, figure e immagini e che dalla pittura metafisica e surrealismo, arrivano naturalmente, all’astrattismo vero e proprio. L’impulso all’astrazione è universale e non si riferisce solo agli artisti proprio perché cerca una struttura regolatrice del reale. Un modello non più imitativo, ma “presentativo”che in termini strettamente artistici ha cercato e cerca di presentare invece che di rappresentare.
Eppure, è lecito chiedersi quale possa essere l’appeal rivestito oggi dal procedimento dell’astrazione. Nell’epoca dell’iperrealismo più tecnologico e futuribile, quali sono i codici comunicativi del procedimento che porta all’arte astratta?
Attuando una rottura radicale nei confronti dell’iconico codice figurativo plurisecolare, il procedimento dell’astrazione dà valore non più agli oggetti o agli elementi della realtà, ma agli stessi segni del linguaggio artistico. L’astrazione è un processo che agisce all’interno del codice comunicativo, ponendosi su un piano decisamente metalinguistico.
Pierluigi Bellacci, muovendosi proprio sul versante della sinestesia come modello rappresentativo globale del reale, cerca l'”eccesso” di percezione, da presentare attraverso una sovrabbondanza di segni. La materia densa e stratificata che arriva ad essere bassorilievo da un lato e la figura fotografata che si lascia attraversare, cancellare o rimodellare dalla pennellata dall’altro, è frutto di una ricerca che sa anche contraddirsi e far sorgere il dubbio. Tradotta in termini di esigenza ribaltata, l’astrazione bellacciana punta anche alla rarefazione, dimostrando di essere in grado di svuotare lo spazio e tendere al monocromo. Sul piano della risposta linguistica, quelle del Bellacci si muovono sul dubbio crinale che in maniera affascinante, ha dato ragione perfino del titolo di questa mostra. Inoltre, rimanendo nell’ambito della restituzione di una globalità di percezioni sensoriali diverse e simultanee, si individuano nel suo lavoro almeno due visioni del reale da astrarre: una articolata in un polo sinestetico appunto e l’altra che si potrebbe chiamare anestetico.
Una rappresentazione interamente simbolica, in cui la sostituzione dei segni avviene per rapporti forniti dall’astrattismo, dove la raffigurazione dei referenti (gli oggetti cui ci si riferisce e la loro conseguente rappresentazione pittorica) scompaiono per far posto ai loro “simboli”.
Questo tipo di ricerche sulle facoltà della visione espresse attraverso la pittura astratta raccolgono senz’altro l’eredità della cultura tardoromantica e simbolista, che proprio nel progetto di una “sintesi delle arti” inseguono una visione globale del mondo. Per quanto riguarda Bellacci, è proprio il clima di un particolare momento storico (quello della Transavanguardia e della scuola romana ad essa collegata ad esempio), che questa sinestesia fa riferimento. Un riferimento che è stato senza dubbio filtrato, masticato, digerito ed elaborato senza volontà di citazione diretta. Ciò che caratterizza la sua recente produzione è il momento dell’apertura, della liberazione, o semplicemente del tentativo in tal senso. Il lavoro sta proprio nella ripetizione della stessa situazione, con variazioni minime, dove le partenze, sia nelle opere realizzate negli anni Ottanta che in queste collocabili nel primo decennio del Duemila, sono immagini che raccontano una realtà.
Realtà fatta di forme biomorfe che ricordano organi interni, contorni sfumati o ideogrammi di figure, per le quali si può dire che ciò che cerca l’artista è una frattura nella realtà che ci permetta di avere uno sguardo sui meccanismi segreti che la governano. Sin dai primi lavori della maturità artistica Bellacci ha utilizzato materiali diversi per un viaggio intimo in cui il corpo diviene una sorta di antro, di caverna da esplorare che presenta il fascino della scoperta, dell’ignoto.
Le immagini narrano ma non entrano nel dettaglio. Vi è un’ambiguità di fondo che invita chi guarda ad andare oltre, a varcare la soglia dell’ignoto inquieto e per certi versi inquietante, che presenta in vari momenti distinti. Il tentativo è quello, attraverso il trucco della forma arricchita di inchiostro dorato, di immagini fotografiche digitali e interventi pittorici di raggiungere la bellezza e il rifiuto della stessa, all’interno di una tensione impossibile.
Arriviamo, dunque al suo lavoro più recente, “et emen” (2013). Il riferimento è evidentemente autobiografico anche se in un gioco di assonanze intende prestare ascolto alla sacralità dello spazio che lo ospita. Nelle immagini nulla è svelato completamente. Ci troviamo piuttosto, di fronte a dettagli che non riescono volutamente a narrare l’insieme. È come una riflessione sull’essere umano dove partenza e arrivo sono autobiografici. Anche qui il tempo è sospeso, l’atmosfera è straniante. Immagine e materiale utilizzato sono perfettamente in sintonia in una lettura volutamente ostacolata nel suo nitore.
Leggerezza e apparente pesantezza sono poste in continua relazione in un fitto dialogo che riesce a porci in una dimensione del tutto particolare in cui attualità e memoria, passato e presente riescono ad amalgamarsi in un insieme in cui le storie uguali e diverse fra loro riescono a farci entrare in una dimensione altra, che per taluni versi potrebbe essere per ognuno di noi autobiografica. Microcosmi pubblici e privati dubbi che si aprono verso l’universalità delle sensazioni e dei sentimenti.
È necessario dunque intendere la sinestesia di Pierluigi Bellacci come lo sforzo concettuale di riunificare le diverse sfere sensoriali e ricondurle a quella facoltà percettiva, cognitiva e neuronale della visione, tematica avvalorata come dicevo, dalle teorie della neuroestetica nella quale prendono corpo le ipotesi di visione elaborate dal corpo e non più solo dall’occhio e dove le altre sfere percettive diventano modello rappresentativo astratto di ciò che si vede.
Quei sensi corporali, tattili e spaziali della percezione artistica, nella quale forse persino il senso del comico (a cui Bellacci non è peraltro estraneo), riuscirà a far cadere il primato dell’occhio e della visione come facoltà rappresentativa e conoscitiva.
Rileggendo Worringer e la sua analisi dei due impulsi psichici contrapposti, quello dell’empatia e quello dell’astrazione, alla luce di quanto studiano gli specialisti del cervello si potrebbe sperimentare tramite questa mostra la veridicità di quanto da essi teorizzato. Che esista in sostanza un impulso di empatia condizionato da un felice rapporto di fiducia tra l’uomo e i fenomeni del mondo esterno e l’impulso di astrazione come conseguenza di una grande inquietudine interiore alla quale corrisponde, nella sfera religiosa, un’accentuazione fortemente trascendentale di tutti i concetti dell’uomo, dell’io e del reale.
Le conseguenze non solo pittoriche di tale atteggiamento sono già state valutabili in anni più recenti nelle ipotesi di sconfinamento arte/vita, riassumibili in manifestazioni dell’arte contemporanea quali il gesto, l’environment o l’happening, e più in generale il ricorso a differenti e molteplici media, anche tecnologici, e la loro utilizzazione simultanea. In egual modo si può leggere la pittura di Bellacci non più come modello rappresentativo del reale, bensì come modello che ricostruisce determinate condizioni percettive che ci permettono di sperimentare proprio sui nostri corpi la validità di tesi così tanto suggestive.
Matilde Puleo