ALE MKF
Quello tracciato dalla penna bic è un linguaggio obbligatorio e rituale. È il linguaggio capace di rendere evidente l’orrore più cupo – le guerre interne contro il male di vivere, ma anche e in egual misura, la generalizzata messa a morte di corpi disegnati a frammenti. Frammenti di membra che si mostrano regolarmente nei sogni…Allora quel ritratto centrale che cattura l’attenzione lascia ben presto spazio a ciò che lo circonda e in quel momento l’occhio si accorge della forma di membra disgiunte o delle ataviche figure animalesche oppure delle cellule degli organi del corpo umano che mettono ali e si armano per le persecuzioni intestine. Il bianco e nero che ne consegue è frutto di lentissimi passaggi chiaroscurali in grado di descrivere un mondo al microscopio con un linguaggio che sembra legittimare la malvagità del banale. Il lavorio dei dispositivi medici di scansione delle cellule e la visione microscopica, dietro una scintillante patina di naturalità, continua a trasformare il vivo in morto. È proprio da questo linguaggio che prendono forma le immagini di Ale MKF a formare una vera e propria smaterializzazione di corpi non umani e che ci parla dell’insensatezza del vivere. Tanto debordante da farla diventare insostenibile e indicibile. La penna bic prova l’impatto letale delle minuscole turbolenze della vita e si presta ad allestire un vero e proprio esperimento gestaltico che ci fa vedere dei volti là dove pensavamo di percepire cose, e animali laddove credevamo di vedere ossa fegati o polmoni. Immagini che ci chiedono di assumere la giusta prospettiva per scorgere la morte dove essa ha trasformato chi vive in un semplice trasportatore di equipaggiamenti. L’opera costituisce la volontà di narrare un senso e quindi, di tessere le fila di un racconto sulla vita e per Ale significa insistere nella determinazione di significati. Produrre dosi maggiori di senso e significato, allo scopo di stimolare temi di ricerca da descrivere, spiegare o prevedere. Occhio crudo è dunque per lei l’accumulazione grottesca di corpi che non hanno spazio.
1. Le impazienze. Un muro di oggetti ramificati che intrecciano ghirlande di morte e di cellule emerse dalle tenebre di due occhi-vitelli questo è di norma il foglio di carta sul quale lavora Ale da almeno un anno. Uno guarda fuori campo e del ritratto stile tardo seicentesco che ha catturato l’attenzione iniziale, vede gli arti posteriori, teschi, volti umani invecchiati, un addome o parte del torace – come se il ritratto fosse diventato quello che già è: una serie di cellule di carne simili a virus o ad animali primitivi degli abissi oceanici più profondi. La quantità di viscere esplose sollecita sensazioni che ci restituiscono l’idea dell’impazienza. Quel viso di donna circondato da esseri mostruosi e strati di cellule dai nuclei lussureggianti, pare impaziente di uscire dalla condizione di non-vita in cui è stato relegato, di liberare la gioia strozzata nei suoi nervi, nei suoi tendini e nei suoi muscoli; la gioia che si esprime senza parole o che le parole non possono esprimere. La vorticosa impennata di tutte queste forme di vita sono l’impazienza di un testimone autentico della fine del mondo che ha registrato ogni cosa per trasformarlo in simulacro di testimonianza. Il fine è quello nervoso di vivere ora il suo implacabile destino. La necessità di questa penna a sfera (impaziente anche se in realtà lenta, accurata, minuziosa anzi proprio bizantina) è quella di rendere intellegibile ai più il segreto impronunciabile del reale.
2. Le rabbie. Esseri monocellulari dalle forme animalesche che richiamano alla memoria specie preistoriche o entità marziali che abitano i nostri intestini, quelli disegnati in questi fogli parlano di collera e rabbia. La collera che rende irascibili, pronti a stravolgere l’ordine simbolico del canone naturalista, la rabbia che abbina volti umani a dissezioni e prevede che batteri, virus e gli animali che ci portiamo addosso siano raffigurati come metafore (sia dell’umano che della specie). Collere che parlano della condizione di miliardi di altri corpi che hanno subito, stanno subendo e subiranno la sorte di cadere, spezzarsi, moltiplicarsi o ridursi vertiginosamente, stravolgendo le giuste quantità, la giusta metà o la ragionevole forma delle cose. La forma delle cose che vivono con serenità. Questa è collera e rabbia di chi non smette di chiedersi: come è possibile che non si riesca a vedere quella massa di mostruosità che è un corpo.
3. Le passioni. Un’enorme superficie di mammelle, ferma in una contenzione che la sposa a tubi creatori di altre cellule da guardare con delicata tenerezza, commovente fino alle lacrime. Cuccioli di forme, elementi orrorifici, subito erotici, a volte macabri ma molto spesso seducenti. Chiarori spaccati in due, di valve nicchie e gusci che a loro volta la guardano e ci guardano, in equilibrio precario su una griglia di ossa e di femori. Questa è la passione degli organi interni compassionevole ma anche carichi di impegno per la materia organica animale. Queste tavole si fanno testimoni di un resto inappropriato: l’amore come potenza non addomesticabile della vita che, seppur incarcerata, continua a desiderare e a farci desiderare di divenire carne, liquido amniotico, saliva, sperma e poi di nuovo carne.
Occhio crudo limone e sale
31 marzo h.18,30 fino al 06 aprile 2018
Ale MKF // David Diseasneyland
a cura di Matilde Puleo
Libreria Black Spring
Via Camaldoli 10 rosso – Firenze
DAVID DISEASNEYLAND
Tra il fumetto underground e la musica industrial, David si fa autore di immagini scomode, in cui si mescolano personaggi ibridi, esseri in cui la dissezione umana si fonde con quella zoomorfica, al fine di generare nuove entità biologiche. Anatomie ibride collocate in un contesto aberrante, abitate da creature con braccia e gambe ramificate, di immediato richiamo al logoro zombie o all’infinita schiera di apatici vampiri.
Per Occhio crudo limone e sale, presenta una combinazione abrasiva di esperimenti condotti ai danni dell’immagine. Cerimonie potenziali, figure improduttive, antenne d’animale sconosciuto e poi trappole al posto di mani, ripetizioni meccaniche invece di zampe e convulsioni fisiche tra animismo e automatismo. Immagine in frantumi, viscere che attraversano il condotto corporeo e trovano una via d’uscita laterale sprizzando inchiostro e colore. Questo è da sempre il lavoro di David Diseasneyland.
Immagini surreali di corpi deformati dal peccato punk, elaborazioni certosine di pennarello su carta e trasposizione elettronica in un miscuglio altamente provocatorio. Si potrebbe parlare di una sintonia di vedute dell’Industrial con il punk e con parte del Pop surrealism, con uno spirito a metà strada tra il ribelle e il necessariamente oltraggioso, ma con una cura del dettaglio difficilmente classificabile all’interno del panorama illustrativo.
Corpo deformato, che trae ispirazione dal ribollire psichedelico e multiforme della cultura pop, i suoi sono mal-esserini distorti che vivono un’ambientazione piatta oppure fotografica altamente paradossale.
Quelli modellati sono volti umani invecchiati, corpi dalle viscere esplose, parassiti e teschi che richiamano sia le fisionomie delle catacombe palermitane, quanto le illustrazioni per l’universo della musica underground. Entità metafisiche, con inclinazioni verso le metamorfosi lussureggianti, figurine di raggelante allucinazione che s’ispirano alle famosissime rappresentazione della Santa Muerte messicana e in generale all’universo del sincretismo religioso sudamericano. Si tratta di esseri metamorfici, dalla natura incerta, delineati tramite l’uso di materie plastiche che evocano l’antico fascino dei decadenti per il disfacimento dei corpi.
David mescola elementi dell’immagine abituale con la debordante e livida macerazione delle carni ora sfumate con lenti passaggi di colore, ora usando una colorazione piatta. Corpo deformato, alterato dal dolore che trae ispirazione dal ribollire psichedelico e multiforme del suo personale panorama visivo e gli scorci più arditi sempre in cerca di effetti distorsivi. Si tratta di torsione d’immagine alla quale viene abbinata un’ambientazione altamente paradossale unita ad un forte senso per lo sfumato e per la nuance. Pesano tutta una serie di influenze per un modus operandi che in sostanza considera indispensabili i circuiti di stampa alternativa o di magazine e fanzine molto lontane dalle buone maniere. Acquista valore d’assoluto la battaglia per la sopravvivenza della facoltà intellettiva in un’epoca di melassa postmoderna e dunque si utilizzano elementi extra-artistici laddove e quando se ne ha necessità. Potremmo fare riferimento alla modalità dadaista di produrre una poesia e parlare di una sorta di cut-up delle immagini se non avessimo ben chiaro che ciò che conta davvero è imparare di nuovo (nel caso avessimo dimenticato di farlo), ad esseri scomodi e sostanzialmente impopolari.